La “SCARTOCCIATURA” ?????

Un po di storia del divertimento contadino della Valdaso 

La “scartocciatura”

Secondo la nostra tradizione contadina la spannocchiatura o scartocciatura era uno dei momenti in icui il lavoro svolto in comune e, soprattutto con l’aiuto di persone estranee alla famiglia, rendeva l’occasione particolarmente gradita ai giovani – ma non solo – perché c’era aria di festa che aveva come conseguenza maggiore libertà di comportamento e soprattutto poiché si poteva trascorrere un po’ di tempo in allegria.

Si scartocciava di sera, sull’aia, alla luce di qualche debole lume ad olio seduti sulle pannocchie deposte a cerchio. Al tramonto cominciavano quelli di casa; poi, un po’ alla volta, arrivavano quelli delle case vicine. Ci si sedeva apparentemente a caso ma gli innamorati, con una scusa o con l’altra, riuscivano ad avvicinarsi per potersi scambiare parole e sguardi protetti dalla penombra.

Qualcuno cominciava a cantare canzoni d’amore o i divertenti canti a dispéttu nei quali, ad una frase scherzosa si rispondeva con una pungente, spesso anche improvvisata, che suscitava i lazzi e le risa dei presenti. Ma i canti predominanti erano quelli a vatòccu, eseguiti da un uomo e da una donna e che richiedevano particolare abilità vocali e molta esperienza. Iniziava la donna con la prima frase; l’uomo faceva il controcanto mentre lei la ripeteva. Poi le voci correvano all’unisono e concludevano la frase musicale con le vocali modulate su lunghissime note finali.

I due tenevano la testa appoggiata l’uno all’altra nell’atteggiamento caratteristico di questo canto; in più l’uomo poneva la palma aperta dinanzi la bocca per indirizzare le sue parole in direzione della sua interlocutrice pur richiamando la complicità dei presenti. Quando la scartocciatura era ormai alla fine, arrivava il sonatore dell’urghinittu e ci si preparava a lu sardarellu. I giovani lasciavano ai vecchi il compito di scartocciare le ultime pannocchie e, tra i canti, le risa, le battute scherzose, davano inizio al pasto costituito dal “polentone” fatto con la farina nuova.

Era lu pulendò’ rencoatu, polenta di granturco preparata anche il giorno prima, fatta a fette e condita con sugo di carne e pomodoro. Le fette erano sistemate a strati, separati da abbondante condimento, e poste in un adeguato recipiente di terracotta riscaldato dalla sottostante carbonella accesa. In questo modo la polenta assorbiva lentamente il sugo e diventava particolarmente gustosa e saporita.
Poi l’organetto aveva il sopravvento e con esso lu sardaréllu che coinvolgeva tutte le coppie.

Lo benedico lo fior de spi’ bianco, / me pizzica lu core fòra e drento, / me pizzica lu core fòra e drento, / quanno me véco la mia bella ‘ccanto diceva una delle innumerevoli strofe che facevano parte del “repertorio” dei canterini o che creavano sul momento. La festa terminava all’alba quando la vergara ricordava che era ormai veramente tardi.

Così gli “scartocciatori”, in corteo e coll’organetto in testa, si congedavano per tornare alle loro case e il loro numero si assottigliava per strada man mano che ognuno giungeva, malvolentieri, alla propria abitazione dove avrebbe ripreso la vita di sempre.